Dove i diritti vanno a morire
Dove i diritti vanno a morire
articolo scritto da Stella Lauro, membro della nostra athlete alliance
Il deserto di Atacama.
Un tempo noto per essere il deserto più arido al mondo, oggi è ritornato sulla bocca di tutti per essere diventato la discarica dei rifiuti del fast fashion.
Sono 39 mila le tonnellate di rifiuti tessili che vi si sono accumulate negli anni. E più che di rifiuti, si potrebbe parlare di veri e propri capi d’abbigliamento, ancora integri e utilizzabili. Ma questo è il prezzo che bisogna pagare per rimanere alla moda.
Il settore della moda è responsabile del 10% delle emissioni di gas serra annuali e consuma 93 miliardi di m3 d’acqua, abbastanza per sostenere una popolazione di 5 milioni di persone [The World Bank]. Ironico che prodotti con un così alto contenuto di acqua incorporata finiscano nel deserto più arido al mondo.
Per poter vendere capi d’abbigliamento ad un costo così basso, li si producono di una qualità troppo bassa per poter essere recuperati; meno del 1% dei capi vengono riciclati in nuovi prodotti [The World Bank]. E spesso contengono anche sostanze tossiche, usate nel processo di produzione, che li rendono non biodegradabili. Così, l’unica fine che possono fare i nostri vestiti è la discarica.
Dai paesi Occidentali infatti, questi rifiuti vengono trasportati in Cina o in Bangladesh, per poi sbarcare nel porto di Iquique [La Repubblica], zona franca di Alto Hospicio in Cile, residuo del governo militare di Pinochet, ed essere scaricati nel deserto di Atacama.
La zona franca di Iquique, chiamata ZOFRI, è stata creata da Pinochet nel 1975 per incentivare i commerci internazionali. Questo permette di scaricare nella zona i rifiuti tessili pagando meno tasse e avendo meno vincoli legali da rispettare. Interessante notare che lo stesso succede all’inizio del ciclo di vita di molti capi d’abbigliamento: molte aziende di moda hanno delocalizzato la propria produzione in zone industriali di esportazione nei paesi in via di sviluppo, create ad hoc per poter attrarre investimenti stranieri. Questo vuol dire meno tasse da pagare per le aziende, o addirittura nessuna tassa per i primi anni, minori controlli sulle condizioni di lavoro dei dipendenti, che si trovano a dover fare straordinari forzati per uno stipendio spesso insufficiente a sopravvivere, e possibilità di utilizzare le forze armate per controllarne l’attività, come a Cavite, la più grande zona franca delle Filippine [No logo, Naomi Klein].
Ma non è la prima volta che il deserto di Atacama diventa una discarica.
Quello che oggi è il simbolo del fallimento del nostro modello economico e della nostra incapacità di assegnare diritti all’ambiente che ci circonda, un secolo fa era simbolo dei mancati diritti ai lavoratori. E non sono cose scollegate, ma entrambi derivano da un modello economico che si basa sullo sfruttamento delle risorse, siano esse umane o naturali.
“Signore e signori, racconteremo ciò che la storia non vuole ricordare. Accadde nel Grande Nord, fu Iquique la città. Il millenovecento sette segnò la disgrazia”.
– La Cantata Santa Maria de Iquique, Luis Advis
Nel 1907, i lavoratori di salnitro indirono uno sciopero generale per richiedere migliori condizioni lavorative. Gli stipendi venivano spesso pagati in ritardo di mesi e anche la vita non lavorativa veniva influenzata dalle imprese, che erano proprietarie degli alloggi degli operai, controllavano gli spacci aziendali e gli altri negozi nell’area degli impianti e possedevano una polizia privata; avevano inoltre stabilito un sistema esclusivo di pagamento tramite gettoni che si potevano cambiare esclusivamente all’interno degli impianti e nei negozi di loro proprietà.
In più occasioni i lavoratori avevano chiesto al Governo di Santiago di intervenire, senza successo.
Il 10 dicembre 1907 iniziò uno sciopero generale, che coinvolse tutti i lavoratori delle miniere di salnitro con le loro famiglie. Il 16 dicembre si ritrovarono ad Iquique, dove avevano sede le multinazionali straniere che stavano sfruttando le risorse del paese. Nei giorni successivi il Governo inviò tre reggimenti, in aggiunta ai due già presenti ad Iquique. I manifestanti erano convinti che fossero stati mandati per ascoltare le loro richieste e risolvere la situazione, ma gli ordini ufficiali erano diversi. Il 20 dicembre venne dichiarato lo stato di assedio con la conseguente sospensione delle libertà costituzionali.
Il 21 dicembre tra i 10.000 e 12.000 operai si erano riuniti nella scuola intitolata a Domingo Santa Maria, rifiutandosi di interrompere lo sciopero per paura che le loro richieste venissero ignorate. Nonostante le minacce di aprire il fuoco se non avessero abbandonato la zona, in pochi se ne andarono. Per primi vennero giustiziati i lavoratori che si trovavano sul terrazzo della scuola. Gli altri tentarono di scappare andando verso le truppe che avevano circondato il posto, le quali spararono un’altra raffica sulla folla indifesa.
Vennero uccise tra le 2.200 e 3.600 persone, tra uomini, donne e bambini, ma lo stato cileno ne ammetterà solo 195. I loro corpi vennero ammassati in una fossa comune, nel deserto di Atacama.
Solo nel 1940 vennero esumati i resti per interrarli nel cortile del Servizio Medico Legale di Iquique. In occasione della commemorazione dei cento anni dal massacro, vennero esumati nuovamente per spostarli in un monumento a loro dedicato sul luogo del crimine, dove tutt’ora riposano.
Il deserto di Atacama da sempre rappresenta il nostro fallimento nei confronti di ciò che più dovrebbe starci a cuore: noi stessi e la nostra casa.